NotaBene – Massimo Folador
L’etica in azienda: un processo comune
Quando scrissi il libro “Un’impresa possibile”, il cui capitolo centrale approfondiva il tema dell’etica nel mondo del lavoro, con particolare riferimento alla gestione delle persone e della relazione, ricordo che feci fatica a scriverlo perché affrontavo la difficoltà di dover rendere chiara la concretezza del “bene comune” in azienda e far comprendere quanto questa sfida, a prima vista appannaggio di altri settori, avesse delle implicazioni enormi sull’economia. È paradossalmente più semplice farlo oggi, visto che il concetto stesso di sostenibilità aziendale, giustamente al centro di tante riflessioni in azienda, altro non è se non la capacità di sviluppare e gestire delle relazioni di “bene comune” con gli stakeholders, così da attivare delle collaborazioni virtuose e positive per l’intero sistema.
Di fronte alla scelta di riparlare di questa sfida in questo NotaBene, partirei dall’aggettivo “comune” più che dal sostantivo “bene” perché forse proprio in un “processo comune”, sviluppato con competenza e lungimiranza, si annida la possibilità di mettere l’etica, il bene comune al centro di una strategia aziendale concreta, fattibile e utile. A partire, ancora una volta, dal portato di innovazione generato dalla qualifica giuridica che permette alle società di capitale di divenire Società Benefit, ovvero di inserire nel proprio statuto, grazie proprio ad un processo comune e condiviso, le cosiddette finalità di beneficio comune. In altre parole, di dotarsi di un insieme di intenti strategici di sostenibilità che hanno l’obiettivo di essere delle finalità tese al bene comune dell’azienda e del sistema di stakeholder in cui è inserita. Un modo estremamente efficace per rendere la sostenibilità un fine e, nello stesso tempo, uno strumento determinante per il suo raggiungimento.
Nell’approfondire questo tema partirei allora proprio dalla parola “società”, che deriva dal latino societas e, in particolare, dal sostantivo socius cioè “compagno, amico, alleato”. Il dizionario Treccani ribadisce il concetto di “un insieme di individui dotati di diversi livelli di autonomia, relazione ed organizzazione che, variamente aggregandosi, interagiscono al fine di perseguire uno o più obiettivi comuni”. Dunque, persino nella parola società esiste, ab origine, l’idea di un’attività che nasce dalla collaborazione fattiva di tanti per raggiungere un obiettivo di tutti, partendo dal presupposto che un obiettivo diventa positivo e ha maggiori possibilità di essere realizzato proprio quando è condiviso. Non è un caso che nel dialetto lombardo o, meglio ancora, nella parlata dialettale ticinese, sopravvive l’abitudine di parlare di “socio” quando si parla di un amico caro, una persona vicina e a cui siamo legati affettivamente ma anche da attività in comune.
Ma la parola “Benefit” aggiunge un altro significato al termine “Società”, ancora più specifico e interessante al fine della nostra riflessione, ovvero il motivo vero per cui fare “società” e lavorare assieme: “benefit” in gergo, sta a dire “fare bene o, meglio ancora, fare del bene bene…” L’ottica chiaramente è quella di laicizzare e modernizzare il concetto di bene, onde evitare che rimanga un affare privato o legato a chi opera nel volontariato, per divenire, al contrario, un modo di lavorare in grado di creare risultati tangibili e concreti, anche di natura economica. Un modo di fare impresa che può divenire una prospettiva fondamentale per le aziende e le persone alle prese con la complessità di oggi, così come sosteneva già Adriano Olivetto in un suo discorso famoso: “La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell’industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire quando il lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio è materialmente e spiritualmente legato a una entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità reale, tangibile, laddove egli e i suoi figli hanno vita, legami, interessi comuni”. Dunque, non solo azioni di tipo filantropico, per altro utili ed estremamente positivi, ma scelte che orientano la creazione di prodotti e servizi “buoni”, lo sviluppo di relazioni autentiche con gli stakeholders, la salvaguardia dell’ambiente, la valorizzazione delle persone e dei loro talenti. “Fare bene o fare del bene bene” è quanto di più concreto si possa realizzare per permettere all’azienda di essere sostenibile ovvero di durare nel tempo e di produrre valore nel tempo.
In questo modo di pensare e di fare impresa, entra in gioco un processo fondamentale che rafforza per l’appunto il concetto di “comune”: il coinvolgimento degli stakeholders, a partire dai collaboratori chiaramente, nella partecipazione ad una formazione in grado di delineare valori e competenze coerenti con questi obiettivi, nell’identificazione della strategia e della sua attuazione, nel monitoraggio e miglioramento dei risultati. Un lavoro frutto di un confronto e di una condivisione sistematica che, se attuata con cura e attenzione, rende esplicita l’importanza della relazione con i vari portatori di interesse così che diventi un perno delle attività aziendali. È dall’ascolto continuo, interno ed esterno, che possono emergere esigenze e aspettative, punti di incontro e soluzioni che possono fondare scelte aziendali coerenti ed efficaci. Così come è raro che un venditore riesca a trovare dei punti di incontro senza ascoltare il cliente, è altrettanto raro che un manager possa collaborare in modo costruttivo con i propri collaboratori senza coinvolgerli. E un processo analogo può essere attuato anche con altri stakeholders come le istituzioni locali, i fornitori, i partner.
L’esperienza fatta in Askesis ci dice che il percorso che porta un’azienda a divenire Società Benefit, o analogamente a fare della sostenibilità un asset reale del suo sviluppo, altro non è che un continuo processo di miglioramento della relazione con tutti gli attori, che di fatto apportano i capitali, tangibili ed intangibili, le competenze e le risorse che possono generare un valore economico, sociale ed ambientale per tutti. La definizione delle finalità di beneficio comune, il passaggio al piano strategico, alla sua attuazione e alla valutazione e rendicontazione che ne consegue, hanno senso solo se cessano di essere un prodotto/servizio, un output, per trasformarsi in un processo comune, senza il quale l’azienda, i team e le persone non possono raggiungere e godere fino in fondo dei risultati e dei benefici condivisi.
In un libro sull’intelligenza collettiva ricordo di aver letto un detto giapponese che recita “Noi assieme siamo molto di più del nostro sapere”. Non serve un proverbio per ricordarci ciò di cui facciamo esperienza quando mettiamo da parte le nostre mire e pulsioni individualiste per mettere realmente in pratica la nostra “essenza sociale” che già Aristotele sosteneva essere il vero elemento che contraddistingue gli umani e le loro relazioni quando sono indirizzate verso l’eudaimonia, l’unico modo di vivere e di lavorare in grado di generare vero benessere e ricchezza.