Notabene – Massimo Folador
Dare un senso al lavoro.
Leggendo alcuni articoli nei giorni scorsi segnalatimi da una cara amica che insegna all’Università Supsi di Lugano, uno mi ha molto colpito e si rifaceva all’intervento del premio Nobel Edmund Phelps al Festival dell’Economia di Trento, nel quale l’economista si è soffermato a parlare di creatività imprenditoriale come base dell’innovazione diffusa e motore di una crescita economica duratura.
Il tema è fondamentale in tempi d’inarrestabile sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, durante i quali ogni settore di mercato vive una dinamicità e una complessità che mettono a dura prova le capacità di resilienza e di sviluppo di un’impresa.
È interessante la riflessione di Phelps perché, se da una parte reputa fondamentale il supporto della tecnologia nello sviluppo di un’innovazione costante e reale, dall’altra pone l’accento su tutti quegli asset non tecnologici che sembrerebbero poco visibili e poco determinanti in questo processo e che, al contrario, l’economista dimostra essere il punto di partenza discriminante. Tra questi la cultura che orienta il lavoro individuale e collettivo e, in virtù di ciò, la capacità che un certo approccio al lavoro può avere sulla soddisfazione e la motivazione verso il lavoro stesso. Tutti elementi che ben sappiamo da decenni sono i veri propulsori alla self-efficacy e, di conseguenza, alle performance e ai risultati.
Entrano in gioco in questa riflessione che accompagna il mondo delle Risorse Umane da sempre, due parole all’apparenza piccole e scontate, due parole che spesso vengono approfondite nei corsi che riguardano la relazione e le tecniche comunicative: il “senso” e il “significato”.
La parola “significato” sembra essere la più semplice perché evidenzia, per l’appunto, la dimensione oggettiva di qualunque termine. Spesso, ahimè, corriamo il rischio di credere che una parola sia legata ad un significato preciso, uno soltanto, e non ci rendiamo invece conto dei mille significati che può avere (pensiamo ad esempio alla parola “pianta” che può significare arbusto ma anche quercia, pianta del piede, piantina di una casa oppure voce del verbo piantare…). Ma il significato diventa ancora più difficile da cogliere e da rendere univoco quando siamo di fronte ad una parola complessa come “lavoro”, un concetto ricco di mille significati e sfumature, tanto più oggi. Qual è il significato che attribuisce a questo concetto un baby boomer? E un giovane delle generazioni successive? E un migrante appena arrivato in Italia? Quale significato attribuisce al lavoro una persona che arriva da decenni di successi professionali o, al contrario, da fallimenti? Un futuro pensionato o un apprendista?
Non è poca cosa per chi seleziona, per chi forma, per chi gestisce le persone in un’ottica di sviluppo della motivazione e di crescita delle competenze capire a fondo il significato che la persona attribuisce al lavoro e, di conseguenza, costruire assieme un percorso di vero sviluppo (togliere i motivi per cui qualcosa o qualcuno si “avviluppa”, regredisce); un percorso che ha come fine proprio quella capacità creativa e di innovazione oggi determinante per creare valore in azienda attraverso il contributo di ognuno vi lavori.
Ma più delicata ancora è la parola “senso” e basta pensare ad uno dei suoi significati principali: direzione, ciò che “sento” e percepisco come mio. Quando sia Herzberg che Maslow, due pionieri della ricerca sulla motivazione, indicano l’autorealizzazione come elemento determinante nel suo sviluppo e mantenimento, indicano proprio l’obiettivo dell’autorealizzazione, ovvero la capacità di percorrere nel tempo la direzione, il senso per l’appunto, che ognuno crede giusto e personale. Qualcosa che proprio perché ha un senso, una direzione precisa e unica, fornisce un senso a ciò che faccio e al lavoro che faccio.
Probabilmente per molti anni dal dopoguerra in poi le due parole significato e senso sono andate a braccetto ed era facile comprenderle ed “utilizzarle” come leva in una gestione delle persone che aveva poche direzioni, pochi significati e, per di più, molto chiari. Oggi non è più così. E se è vero, come dice Phelps, che la soddisfazione nel lavoro e una cultura orientata all’eccellenza sono fautori di creatività e innovazione, sappiamo crearla in noi e nei nostri collaboratori? Sappiamo gestirla e svilupparla?
Mi viene in mente a proposito la famosa storia dello spaccapietre, più volte citata persino da Adriano Olivetti. Una piccola storia, all’apparenza semplice ma che ben racconta in modo metaforico, la differenza abissale tra chi fa una grande fatica a spaccare pietre perché solo animato dalla paga finale e chi, dentro quella fatica, vede un sogno, una meta, una direzione. Solo quest’ultimo probabilmente – proprio lui che sente di partecipare alla costruzione di una cattedrale – è riuscito a trovare, il significato e il senso più vero al proprio lavoro e, probabilmente, saprà veramente concorrere alla sua costruzione e alla sua personale soddisfazione.