Monaco Benedettino Camaldolese, Life Coach e formatore
Padre Natale Brescianini è un monaco benedettino presso la comunità monastica dell’Eremo di Monte Giove (Fano – PU) e svolge attività di coaching e formazione legata alla Regola di San Benedetto per aziende e istituzioni, spesso in collaborazione con Askesis.
Padre Natale, come è nata questa tua passione per la consulenza e la formazione?
Ho una formazione puramente umanistica, perché sono entrato in seminario a Brescia a 12 anni. Dopo il liceo classico ho studiato filosofia e teologia e sono passato alla comunità monastica camaldolese di Bardolino all’età di 25 anni. Ho completato poi gli studi all’Università Benedettina Sant’Anselmo di Roma. Nel 2003 ho fatto la “professione solenne”, diventando monaco a tutti gli effetti, in seguito alla quale ho vissuto per un periodo nelle comunità benedettine californiane.
Quando sono rientrato in Italia, ho chiesto di fare nuove esperienze e mettermi in gioco in attività che non conoscevo. Sono entrato in contatto con l’imprenditore veronese Luciano Martinelli, con il quale ho iniziato a lavorare in azienda, per un paio d’anni. L’impresa faceva sistemi di controllo satellitare ed era in rapida espansione, così Luciano mi ha chiesto di seguirne la riorganizzazione e di fare da tramite tra i consulenti e l’azienda.
Mi sono detto: l’unica cosa che so fare è leggere libri. Sono andato in libreria a Verona a cercare qualcosa e ho trovato il primo libro di Massimo Folador, “L’organizzazione perfetta”. Ho conosciuto Massimo e da quel rapporto è nata la mia esperienza di formatore e, successivamente, di coach, studiando alla scuola di Alessandro Pannitti, con cui negli anni successivi ho scritto due libri sulla spiritualità e il coaching.
Il bene comune è un tema oggi ricorrente per parlare di valori e impatti generati anche dal mondo delle imprese. Qual è il suo significato?
È un tema che è nato da qualche anno e che oggi “costringe” le aziende a rivedere il senso ultimo del fare impresa e dell’attività economica. Le spinge ad allargare i loro orizzonti e fare in modo che la loro attività sia sostenibile da ogni punto di vista.
Negli interventi professionali noi di Askesis sottolineiamo alcuni aspetti del senso del lavoro. Il luogo di lavoro, grazie al bene comune, diventa un luogo fortemente educativo e dobbiamo chiederci a quali virtù vogliamo educare le persone. Il luogo di lavoro è anche un luogo politico, come ci spiega l’amico Vincenzo Linarello. Dietro ogni prodotto creato od ogni servizio erogato c’è un’idea di essere umano e di mondo che vogliamo costruire.
Il luogo di lavoro è anche, e soprattutto per chi ha un’esperienza di fede, un luogo teologico: una cartina di tornasole per il rapporto che abbiamo con la spiritualità. Andare a messa o al tempio mostra che siamo credenti, lavorare bene mostra che siamo credibili. Questo aspetto non va a scapito del profitto. Anzi le aziende benefit dimostrano che l’attenzione al bene comune porta vantaggi anche al profitto.
Dobbiamo quindi passare dalla massimizzazione del profitto, che è stato il grande dogma economico degli ultimi anni e che ci ha fatto fare anche grandi passi avanti, all’ottimizzazione del profitto, secondo quanto ci racconta la dottrina sociale della Chiesa cattolica.
Come bisogna intendere i concetti di “guidare gli altri” e di “leadership virtuosa” nella Regola benedettina e come questi possono aiutare chi lavora nelle organizzazioni?
Si è in grado di guidare gli altri se si riesce prima di tutto, a guidare sé stessi. Il primo passo è riconoscerci come persone, ancora prima che come professionisti, con tutto il proprio bagaglio. Il lavoratore, il professionista ha, per dirlo con parole del mondo benedettino, un corpo, una mente, uno spirito. Una volta che riesco a guidare me stesso, posso guidare gli altri.
La leadership virtuosa non significa essere perfetti, non sbagliare. Per comprenderlo, è utile la metafora musicale: quando un musicista fa un virtuosismo, riesce a portare alla massima espressione sé stesso, lo strumento che sta suonando, le proprie tecniche e anche la melodia. La leadership virtuosa significa quindi portare alla massima espressione sé stessi, ma anche le persone e l’organizzazione per le quali si lavora. Sottolineo che nella leadership virtuosa, che è un portato del mondo classico, è compresa anche la possibilità di fare errori. Si tratta di una nuova visione di leadership: se ammetto di fare errori, non significa che sono debole, ma soltanto che sono fragile. Vuol dire che sono prezioso, che devo essere maneggiato con cura. Il leader virtuoso sa maneggiare con cura, sa prendersi cura di sé e degli altri.
Oggi una sola persona non sa dare tutte le risposte. Se c’è un problema, il compito del leader è fare le domande giuste, suscitare coinvolgimento e poi fare sintesi. Occorre essere leader generativi, non seguendo più uno stile “comando e controllo”, ma saper mettere gli altri nelle condizioni di dare il meglio di sé.
Cosa significa mettere la persona al centro nelle organizzazioni? Che legame c’è tra il silenzio, l’ascolto, la condivisione e il valore delle persone?
Più che mettere la persona al centro a me piace rimarcare che abbiamo bisogno di persone centrate. Se penso soltanto di mettere la persona al centro c’è il rischio che si tratti di una questione puramente organizzativa (orari, tempi ecc.). Non è sufficiente costruire un’autostrada perfetta: se l’autista è ubriaco, l’auto si schianta.
Silenzio, Ascolto, Condivisione sono tutti strumenti che ci aiutano a centrarci meglio. Silenzio e Ascolto innanzitutto rivolti a sé stessi: capire chi siamo, cosa abita la nostra interiorità, renderci consapevoli di pregi e difetti.
Poi, occorre evitare di divenire talmente centrati da essere autoreferenziali, come ci spinge la cultura di oggi. Massimo Folador ed io facciamo riferimento al tema della Condivisione per un motivo ben preciso: l’altra persona non è un impedimento alla mia realizzazione, ma è condizione necessaria alla mia felicità personale e alla realizzazione dell’organizzazione. Allo stesso modo, per tornare alla prima domanda, il bene comune non è un ostacolo al successo economico di un’azienda, ma è una condizione necessaria.
Per aiutare ad entrare in questa nuova logica, facciamo spesso riferimento al linguaggio di Adriano Olivetti: bisogna passare da un’organizzazione a una comunità organizzata. In una comunità non condividi solo procedure, organigrammi e KPI da raggiungere, condividi soprattutto una visione di mondo, un’idea di essere umano.
È possibile a tuo avviso parlare di una via europea al management e alla conduzione d’impresa, comunitaria, solidale, che diverge in qualche modo dall’impostazione americana, iper-razionale, individualista?
Le estremizzazioni non funzionano mai, ma si può dire che lo stile di management che ha puntato tutto sull’organizzazione e sulla massimizzazione ha segnato un po’ il passo. Però anche il mondo americano si sta interessando di questi nuovi temi, e si sta interrogando: le riflessioni sul capitale spirituale, la responsabilità sociale d’impresa o le B Corp sono paradossalmente iniziate negli Stati Uniti.
Quando hai un tessuto imprenditoriale di grandi imprese e multinazionali è normale che si debba puntare tutto sull’organizzazione, ma si rischia di perdere altri elementi. Da noi, invece, dove prevalgono le piccole e medie imprese, la relazione è fondamentale, anche se talvolta l’organizzazione e l’efficienza lasciano a desiderare.
Un cambiamento di mentalità che è richiesto a tutti è quello che Papa Ratzinger ricorda nell’enciclica Caritas in veritate: dobbiamo uscire dallo schema che divide l’economia profit da quella non profit. È quello che le Società Benefit stanno cercando di fare. È la via per superare il peccato originale dell’economia occidentale (alcuni fanno i soldi, altri si dedicano ad attività sociali), che oggi non funziona più. Bisogna uscire da questo “dogma”.
Allora quali passi bisogna compiere per uscirne?
Il primo passo fondamentale è, come detto, smettere di tenere separati profit e non profit.
Il mondo esclusivamente profit è caratterizzato dallo scambio di equivalenti (prodotto in cambio di denaro, in sostanza). Per farlo, sono mosso da una prospettiva puramente utilitaristica, come afferma Adam Smith, e per guadagnare più possibile spingo su una competizione molto forte.
Ma lo scambio di equivalenti, la prospettiva utilitaristica e la competizione spinta non sono più le uniche modalità per tirare fuori il meglio dalle persone e dalle organizzazioni. Queste tre dimensioni devono essere integrate da altre prospettive.
Lo scambio di equivalenti deve essere integrato dalla reciprocità, che, come dice il prof. Zamagni, è “dare senza perdere e prendere senza togliere”. È un circolo virtuoso.
Per quanto riguarda la prospettiva utilitaristica, occorre sottolineare che non è vero che noi esserI umani ci muoviamo solo per utilità, ma anche per uno scopo: in questo caso entriamo in una relazione generativa, la quale può essere in parte utilitaristica, ma è in funzione di qualcosa di più.
Siamo chiamati a scegliere se essere leader “estrattivi” o leader “generativi”. Il primo è come un minatore, che estrae all’inizio pietre preziose e tesori, ma poi lascia desolazione. Il secondo è come un giardiniere: ha tutto l’interesse che il terreno rimanga fertile, anche per il futuro.
Infine, la competizione deve essere integrata dalla collaborazione, perché quello che ci rende veramente umani è la relazione: entro in competizione con l’altro, non per “fargli le scarpe”, ma per migliorare me stesso.