Giuseppe Buffon, frate minore, è Professore ordinario di Storia della Chiesa alla Pontificia Università Antonianum di Roma, invitato presso il Centro Sèvres di Parigi e già Decano della facoltà di Teologia nello stesso ateneo.
All’interno dell’Università Antonianum ha dato vita, insieme ad Askesis e ad altri esperti, al corso di Diploma di specializzazione in Ecologia ed Economia Integrale.
Con Massimo Folador è autore del volume Verso un’economia integrale. La via italiana alla ripresa.
Padre Buffon, Lei ha scritto che “quando si parla di ecologia, non si dovrebbe intendere solo l’ambiente naturale (…) ma l’ambiente nella sua integralità, la casa comune”.* Ci può spiegare brevemente il concetto di ecologia integrale, introdotto dall’enciclica Laudato si’?
Il primo documento che conia il termine “ecologia integrale” è proprio l’enciclica Laudato si’, dopo un iter abbastanza complesso. L’enciclica coniuga e mette in interconnessione due ambiti: l’ecologia e i diritti dell’essere umano. Dice, in sostanza, che non si può salvaguardare la dignità della persona senza far in modo che questa viva in un ambiente sano.
Per spiegare in modo chiaro e concreto cosa significhi, possiamo citare il tema dell’ecomafia: individui mafiosi che si associano per delinquere, creando un problema di carattere sociale, ma anche contemporaneamente un danno diretto all’ambiente.
La definizione migliore di “ecologia integrale” è proprio il sottotitolo dell’enciclica, Sulla cura della casa comune: la casa comune è terra, acqua, clima, ma anche società. La guerra di oggi ce lo dimostra, perché si tratta anche di una guerra per l’energia. E prendersi cura della casa comune significa proprio economia (eco e nomos), organizzarla e gestirla in modo che la persona vi possa vivere bene.
È quindi naturale che l’imprenditore si prenda cura della società, oltre che dell’impresa e delle persone che vi lavorano. La dimensione paradigmatica dell’“ecologia integrale” è tenere insieme gli opposti, rispondendo a quattro princìpi: meglio operare sui processi che controllare gli spazi; l’unità è sempre superiore al conflitto; la realtà è sempre superiore alle idee; il tutto è superiore alla parte.
Fare innovazione significa trovare elementi di interconnessione tra polarità apparentemente inconciliabili.
Il lavoro che abbiamo fatto con Massimo Folador a Taranto, il territorio dell’Ilva, è ispirato a questi princìpi: mettere insieme natura e cultura, ambiente e lavoro.
Oggi si parla d’impresa generativa, che coniuga crescita e interazioni nella società. È un nuovo modello di sviluppo o una moda passeggera?
Noi siamo ripartiti da Taranto con l’idea che l’impresa sia un vero motore sociale e politico. L’aspirazione è che l’azienda diventi un centro di innovazione, oltre che tecnologica e produttiva, anche sociale e relazionale: in questo senso diventa generativa. Siamo alla fine della stagione delle energie fossili, su cui è stato costruito un sistema produttivo ed economico, e uno stile di vista consumistico. E come rappresentante della Chiesa stigmatizzo la stagione coloniale che l’ha generata.
La logica del gratuito all’interno delle relazioni (l’amicizia, per esempio) può quindi trovare spazio anche all’interno dell’impresa. Il prodotto che l’impresa lavora è un regalo che la Natura ci dona, e ci dobbiamo impegnare a mantenerlo tale: a un cliente noi non offriamo una “spremitura” di questo dono per ricavare maggior profitto, ma un prodotto dell’uomo che deve ambire ad avere una qualità superiore.
Perché l’imprenditore inizia ad allargare la cerchia dei cosiddetti portatori d’interesse, e riconosce il valore del capitale relazionale?
Il capitale relazionale è il cuore della vita. Noi viviamo per le relazioni, danno senso alla nostra vita. Perché allora non può essere anche il cuore dell’impresa? Se vogliamo che la persona resti umana anche all’interno dell’azienda, la relazione deve essere posta al centro. In questo modo l’impresa diventa generativa: genera pensiero, idee, sogni ecc.
Qual è a suo parere il rapporto tra impresa profit e impresa non profit, quali punti in comune oggi ci sono tra il settore “produttivo” e il terzo settore?
Non sono un esperto del terzo settore, non ne conosco a fondo la normativa, ma come storico posso ricordare come il primo provvedimento della Rivoluzione Francese sia stata l’abolizione delle Confraternite, che erano il “terzo settore” delle corporazioni, perché si occupavano di funzioni liturgiche, ma anche di servizi alla società. Anche negli anni successivi, durante il periodo degli Stati liberali, salivano dalla società esigenze di assistenza e di servizio, e nell’ambito della Chiesa Cattolica, sono nati istituti femminili (scuole, ospedali…) con una funzione di supplenza sociale.
Oggi come allora il terzo settore supplisce a queste carenze dello Stato. Non so dire però se l’ideale sia fondere il terzo settore con l’impresa, portando all’interno delle organizzazioni il servizio sociale, oppure tenerli distinti, ma incoraggiando una relazione reciproca più forte. Il terzo settore ha comunque un ruolo di stimolo importante nei confronti dell’impresa.
Come è possibile trasformare i consumatori e i clienti in agenti del bene comune, in “azionisti della bellezza sociale”?
Dipende molto dall’imprenditore e dal manager, se intende assumersi la responsabilità di diventare un filosofo, di dedicarsi al problema della persona umana, di lavorare non solo per i prodotti ma anche per il bene della persona, per i valori.
Volgendo attenzione non solo a beni materiali, ma anche ai beni legati alla dimensione della bellezza, della socialità, della partecipazione.
Chiedersi quali sono i bisogni delle persone (e non generare bisogni indotti) è il fine dell’impresa: dare spazio all’essere umano. In questo senso, l’impresa non parla più ai clienti, ma alle persone. E può coinvolgerle in un progetto di relazione e di socialità.
* dal volume di Massimo Folador e Giuseppe Buffon, “Verso un’economia integrale. La via italiana alla ripresa”, Guerini Next, 2020