Intervista a Florindo Rubbettino

2. Florindo Rubbettino

 

Presidente di “Rubbettino editore” e “Rubbettino industrie grafiche”.

Florindo Rubbettino, imprenditore ed editore, guida insieme al fratello Marco le aziende di famiglia attive nei settori dell’editoria, della stampa, della comunicazione, del packaging e del turismo.

 

L’attività imprenditoriale della sua famiglia è segnata da più di 50 anni da una forte attenzione allo sviluppo del territorio, con forti radici umanistiche. Come nasce questa sensibilità?

Rubbettino nasce nel 1972 da mio padre Rosario Rubbettino, allora giovane responsabile amministrativo di una scuola media, che desiderava fare l’editore. Partendo da zero, perché non aveva capitali né un know how diffuso intorno a sé ma solo la sua passione e la sua caparbietà, mise in piedi una tipografia e costruì un piccolo catalogo di libri, con l’aiuto di intellettuali e di università che andava coinvolgendo nel progetto. Parallelamente, l’attività di stampatore iniziò a rivolgersi anche a soggetti esterni.

Nacque così il nostro gruppo, che ha continuato a lavorare lungo questi due binari, oggi due società distinte: la casa editrice e la realtà industriale che opera nel campo della stampa, del packaging e della comunicazione attraverso la stampa. Siamo nati e siamo rimasti a Soveria Mannelli, un paese della Calabria interna, crescendo a piccoli passi, con un organico che si è progressivamente ampliato fino a contare oggi 90 persone.

Abbiamo poi una piccola struttura alberghiera con 6 camere e un ristorante molto apprezzato, che fa parte del nostro sistema di impresa e cultura. La struttura si chiama La rosa nel bicchiere, ispirandosi a un grande poeta calabrese, Franco Costabile. Un altro luogo di cultura.

 

La sostenibilità strategica di Rubbettino è legata ai valori aziendali: etica della responsabilità, comunità intesa come una grande famiglia, il senso della “restituzione” di quello che si è avuto.

Nella nostra storia c’è un legame fortissimo con il territorio e le comunità “concentriche”: l’impresa, il territorio, le community dei nostri autori o degli attori che a vario titolo ruotano intorno alla casa editrice. Sono pezzi importantissimi della nostra visione e del nostro modo di fare impresa, a maggior ragione in quanto viviamo in un “microcosmo” di un piccolo centro dell’Appennino calabrese, che non è un punto strategico dal punto di vista delle reti relazionali e della logistica.

Noi non abbiamo fatto altro che coltivare, coltivare la bellezza delle relazioni che ci stanno intorno, che sono diventate un asset competitivo, perché sono valori d’impresa.

 

Nel progetto imprenditoriale che avete costruito come si coniugano innovazione sociale e innovazione industriale?

L’innovazione tecnologica, soprattutto per un’impresa dei nostri settori, è fondamentale per stare sul mercato. Nella nostra storia abbiamo abbracciato sempre con entusiasmo ogni innovazione. Ce ne sono state tante: abbiamo iniziato negli anni ’70 con la tecnologia di Gutenberg e poi siamo passati attraverso numerose accelerazioni e continui cambi di paradigma.

Ma l’accelerazione tecnologica è vuota senza un’innovazione sociale, che significa adeguare a queste mutazioni anche i comportamenti: c’è in questo pienamente il tema della responsabilità sociale d’impresa, del fare cose nuove in maniera diversa, come richiedono tutte le innovazioni (se non vogliamo esserne tutti “vittime” o al massimo fortunati spettatori).

 

Vuole raccontarci un progetto che state sviluppando in questa direzione, come il progetto “Carta”?

“Carta” è un altro pezzo del nostro ecosistema. È costituito da un parco di arte contemporanea, “Carta”, adiacente la parte produttiva dello stabilimento, nell’area del parco voluto da nostro padre e ricco di specie vegetali, al quale abbiamo aggiunto una parte artistica, affidata alla curatela internazionale di Shawnette Poe e Alessandro Fonte. Giovani artisti vengono in residenza per una settimana e progettano un’opera, ispirandosi al mondo vegetale che si fa “carta” attraverso la cellulosa e che diventa da supporto ai contenuti editoriali, che una volta letti tornano immateriali e producono cultura, conferendo un senso di circolarità al rapporto tra vegetazione e cultura.

L’altro pezzo di “Carta” è il museo d’impresa, appena inaugurato, che da un lato è un luogo di “heritage”, dove si racconta la storia dell’azienda e del nostro settore, e da un altro è un luogo in cui le vecchie tecnologie dialogano con le nuove, come la stampa 3D e l’intelligenza artificiale. È anche uno spazio Fablab e coworking, al cui interno vorremmo ospitare talenti innovativi e il mondo della scuola, con cui dialoghiamo già moltissimo. Attraverso questo spazio di tradizione e innovazione vogliamo favorire la contaminazione e l’ispirazione. È quindi un centro aperto alle comunità, un ulteriore tassello della nostra visione.

Aprire i cancelli dell’impresa significa anche far conoscere la vita delle fabbriche, non solo i suoi prodotti. La non conoscenza di questo mondo rischia di rinforzare l’atteggiamento anti-industriale, forse un po’ ideologico, che caratterizza il nostro Paese. Invece le fabbriche sono luoghi di vita, di comunità, di storia, di felicità, di progetti, di fallimenti da cui imparare e rialzarsi. Luoghi vivi, che meritano di essere conosciuti. L’idea dei cancelli e dei recinti, che è un po’ connaturata alla fabbrica, deve essere superata: è anche questa una forma di innovazione sociale.

 

Possiamo dire che il ruolo dell’impresa familiare italiana acquista maggiore importanza all’interno di un percorso verso la sostenibilità sociale e ambientale?

Credo di sì, perché l’impresa familiare ha un’attitudine a guardare a percorsi a lungo termine, mentre l’impresa non familiare tende a concentrarsi ai risultati di breve periodo. Invece alle imprese familiari interessa anche la prosperità e la solidità nel tempo, perché intende assicurare un futuro alle nuove generazioni.

Io sono nel Consiglio Direttivo dell’AIDAF, l’Associazione italiana delle imprese familiari, e ci confrontiamo continuamente su questi temi. A livello internazionale all’Italia viene riconosciuto questo DNA, legato all’azienda familiare, molto forte.

 

A suo parere cosa manca al mondo imprenditoriale italiano per dare maggiore impulso al settore del beneficio comune e della responsabilità d’impresa? Incentivi? Strumenti? Formazione? Preparazione culturale?

Al primo posto va messa la conoscenza e la formazione. È importante far passare il messaggio che non si tratta solo di scelte etiche, e quindi con una componente valoriale importante, ma che la sostenibilità è una leva competitiva, cosa che agli imprenditori giustamente interessa molto.

Credo che la sfera dei valori e dell’identità d’impresa sia un asset che sempre più spesso il consumatore cerca nei prodotti. Negli anni scorsi siamo passati da una fase in cui si sceglievano i prodotti per il prezzo a una in cui contavano sia il prezzo che la qualità. Oggi siamo in una fase di mercato in cui i prodotti e i servizi vengono scelti per il prezzo, la qualità ma anche per tutti i valori che essi incorporano.

Poi, più che di incentivi, parlerei di strumenti, di pacchetti più integrati rispetto agli incentivi, che possano premiare le imprese che scelgono questi valori. I valori sono anche un potente motore di senso e di attrattività anche nei confronti di dipendenti e collaboratori, soprattutto tra i giovani.