Intervista a Sabrina Bonomi

2. Sabrina Bonomi


Docente di Organizzazione Aziendale

Sabrina Bonomi è professore associato di organizzazione aziendale per l’Università degli Studi eCampus, socio fondatore della SEC – Scuola di Economia Civile e libera professionista.

Prof.ssa Bonomi, come valuta lo sviluppo degli ultimi anni dei temi relativi ai valori alla responsabilità sociale d’impresa e al bene comune?

Non si tratta di un tema nuovo. Le imprese nascono come entità sociali, con la logica di creare, per l’imprenditore e per gli altri stakeholder, del bene, del valore. Credo che sia normale che le imprese si preoccupino di intraprendere attività rispettose della comunità e dell’ambiente, altrimenti non possiamo parlare di imprenditori, ma di “prenditori”, che estraggono risorse a beneficio proprio.

I grandi imprenditori, nella storia, sono stati un tutt’uno con le persone e il proprio territorio. Se siamo tornati a parlare di bene comune in questi anni e anche a dover normare questi temi, è perché tutto era lasciato alla singola iniziativa e perché, nel tempo, si è creata una distorsione opportunistica dei free rider. E quando l’opportunismo è molto diffuso, c’è il rischio che il sistema collassi: oggi siamo in questa situazione.

La responsabilità sociale non può più quindi essere lasciata su base volontaria, ma deve essere in qualche modo “regolata”; il che vuol dire dare indirizzi e fare dei controlli; ci sono molte realtà che dichiarano ma non “fanno”.

Il pro di una regolamentazione è che questa si estende a tutti, il contro è che la responsabilità sociale rischia di diventare solo un tema di compliance, dichiarato ma non praticato. Se non ci sono comportamenti coerenti conseguenti, la regola rischia di divenire un boomerang che si ritorce contro le imprese, danneggiando anche le attività che sono responsabili seriamente, le imprese civili, come molte società benefit ma non solo.

È però importante parlarne, perché la sensibilità comune su questi temi deve essere diffusa anche nei consumatori, nei lavoratori, nei fornitori e portare, per esempio, a mettere a disposizione i propri talenti per le realtà che adottano azioni responsabili.

 

Lei è un’esperta di passaggio generazionale. Possiamo dire che l’impresa italiana, nonostante le sue difficoltà strutturali, può essere più predisposta ad abbracciare un percorso verso il bene comune?

È vero che le imprese italiane sono particolarmente attente a questi temi; io credo che la presenza massiccia e preponderante di imprese familiari, in generale, favorisca la sostenibilità ed esse sono presenti anche in altre culture.

È ovvio, infatti, che le imprese familiari e le piccole e medie imprese, siano più connesse con il proprio territorio; in Italia abbiamo anche una grande tradizione cooperativa che aiuta. In Italia la ragione è probabilmente storica e socio-culturale: abbiamo tante imprese familiari e anche tante imprese di medie, piccole e micro-dimensioni, nelle quali è minore la presenza dell’azionista “investitore puro”, che ha sbilanciato la logica imprenditoriale attenta tradizionalmente all’economia reale e al territorio. Il secondo fattore è che le imprese familiari guardano al lungo periodo. Nel breve periodo posso guardare solo al mio interesse, ma nel medio-lungo periodo questo non è più possibile e le imprese familiari, per loro natura, hanno l’idea della continuità e quindi della sostenibilità.

Aggiungerei anche un tema generazionale: le nuove generazioni, contrariamente a quanto si sente dire, sono più sensibili al bene comune, anche perché non hanno altra scelta. Pensiamo al fenomeno dei nuovi consumi, così attenti all’ambiente, alla qualità di vita, di persone e animali.  Però come Paese dobbiamo essere più attraenti per loro: è importante che i giovani facciano esperienze all’estero, ma ci devono essere le condizioni per permettere loro di tornare.

La creatività e l’innovazione hanno bisogno dei giovani e occorre fare loro spazio. Anche tra genitori e figli è faticoso il passaggio generazionale, perché spesso i primi non sono pronti a lasciare o non sono pronti a fare in modo che i figli gestiscano in modo autonomo l’azienda.

 

C’è anche un tema di leadership che emerge da queste riflessioni…

Sicuramente c’è un tema di leadership. Ma dobbiamo intenderci su che cosa è questa leadership. La leadership non è necessariamente incarnata dal capo o dal manager e oggi credo ci sia bisogno di una leadership più diffusa, di una maggiore responsabilizzazione e di essere leader a tutti i livelli.

Non una leadership autoreferenziale, ma di servizio, una servant leadership. Noi confondiamo la leadership con l’essere onnipresenti, essere noti o comandare. A mio parere invece leadership significa tirar fuori da ciascuno il meglio che ha dentro e il meglio che può fare, nel rispetto delle caratteristiche di ciascuno.

È però importante che ci sia anche una buona capacità di followership: ora sei tu il leader, e io seguo, in futuro potrà capitare che lo sia io.

Serve una leadership quindi più partecipativa, più coinvolgente, ma anche più flessibile. La complessità di oggi è tale che serve leggere la realtà da più punti di vista, serve la ricchezza della diversità e servono una pluralità di penseri e una maggiore capacità di ascolto, per creare una visione da più prospettive e flessibile.

Quello che da leader non si può fare è però cambiare le convinzioni profonde, i propri valori. Questo succede quando si asseconda tutti, non si ha il coraggio delle proprie opinioni, non si fanno battaglie per non essere criticati. La ricerca di un consenso apparente ci distoglie dall’unico consenso che conta: quello con noi stessi che però conferisce l’autorevolezza tipica delle leadership.

L’incapacità  di prendersi responsabilità è il nemico delle leadership, le innovazioni migliori sono arrivate da chi è stato capace di andare controcorrente.

 

Che cosa può servire al mondo imprenditoriale italiano per dare maggiore forza alle loro iniziative nell’ambito responsabilità d’impresa? Formazione? Preparazione culturale? Incentivi?

Dobbiamo dare agli imprenditori la possibilità di esprimere la cultura civile che caratterizza il tessuto italiano, premiandoli per questo. Non credo agli incentivi, credo alle premialità, ai riconoscimenti ex-post. Dobbiamo però ricreare una cultura sui temi del bene comune. L’imprenditore che è attento all’ambiente, che rispetta i collaboratori vale di più di un concorrente che se ne disinteressa e vende i propri prodotti a un prezzo inferiore, ribaltando sulla collettività i costi che non si assume in prima persona.

Abbiamo un problema di narrazione della scala dei valori, sulla quale dobbiamo intervenire a partire dalla scuola. Il profitto non è l’unico metro di valutazione per la bontà di un’impresa, ma bisogna aggiungere tutti i capitali intangibili, che dobbiamo essere in grado di misurare efficacemente. Quindi: cultura educativa e cultura di misurazione e valutazione all’interno delle imprese.

In secondo luogo, c’è il tema della comunicazione. Non siamo bravi a comunicare le buone iniziative. È importante che tutta la comunicazione (dall’informazione alla comunicazione d’impresa) inizi a raccontare le storie degli imprenditori validi e capaci di attenzione al bene comune. C’è poi un tema che riguarda le persone e la cultura del consumatore che non sa che ogni scelta ha conseguenze sulla vita delle imprese (si pensi al fenomeno del fast fashion). Più che di meritocrazia è importante parlare di meritorietà: riconoscere chi è corretto, non soltanto per il risultato apparente ma anche per l’impegno sottostante.

L’obiettivo è un’economia più civile a tutti i livelli, da parte di chi la pratica, da parte di acquista i prodotti o i servizi, da parte della politica, che ha una responsabilità importante.