Intervista ad Alberto Bubbio
Senior Professor di Economia Aziendale
Alberto Bubbio è Senior Professor di Economia Aziendale e responsabile dell’insegnamento di Pianificazione e Controllo presso LIUC Università Cattaneo di Castellanza. Tra i massimi esperti in Italia del controllo di gestione, ha pubblicato numerosi libri e articoli su riviste specializzate. È Presidente del Gruppo Dimensione Controllo S.r.l.
Ci vuole raccontare qual è il significato e l’importanza della cosiddetta Triple Bottom Line (People, Planet, Profit)?
Tutti gli strumenti di management relativi alla pianificazione e al controllo di gestione sono stati pensati inizialmente per la gestione dei volumi in un contesto di mercato di massa. Solo successivamente, sulla scorta di drammatici cambiamenti economici, le imprese hanno riservato una maggiore attenzione ad alcuni aspetti oggi cruciali, come l’importanza delle persone nelle organizzazioni.
Naturalmente in Italia ci sono state lodevoli eccezioni, che avevano già affrontato questi temi, come l’Olivetti (sia di Adriano che di Camillo!). Tanto è vero che l’Olivetti è stata presa come oggetto di studio all’Harvard Business School: noi non la studiamo, ma negli Stati Uniti lo fanno!
L’Olivetti era sicuramente all’avanguardia nel marketing (l’Olivetti touch), nella gestione della fabbrica e fuori dalla fabbrica, per come aveva prestato attenzione a ciò che ruota intorno all’impresa: il territorio di Ivrea per esempio. Anche Ferrero si è comportata in modo analogo.
Rispetto ai temi delle tre P della Triple Bottom Line, di persone se ne parla però già da tempo, fortunatamente. La mia scuola, la Bocconi, aveva maestri che mi hanno dato molto sia sul piano dei contenuti tecnici che etici, perché c’era una commistione tra la cultura laica e quella cattolica. Io appartengo alla scuola del professor Masini.
La realtà americana invece ha sviluppato inizialmente strumenti molto legati al profit, di cui io stesso mi sono occupato. Ad un certo punto, però, sono arrivati i primi segnali d’allarme in ambito ambientale (si pensi al volume I limiti dello sviluppo, scritto da docenti del MIT) e poi la crisi petrolifera degli anni ’70, che è stato il vero spartiacque. Dall’illusione di una crescita infinita si è passati alla consapevolezza sui temi della sostenibilità.
Per quanto riguarda l’Italia, posso dire, con un pizzico di orgoglio, che in LIUC su questi aspetti siamo arrivati un pochino prima degli altri.
Lei è stato il pioniere italiano della Balanced Scorecard. Ci vuole raccontare come è andata?
Nel 1985 lavoravo in SDA Bocconi e fui inviato negli Stati Uniti a seguire un Summer Program. In quell’occasione conobbi Robert Kaplan, che proponeva le prime riflessioni sull’activity based costing, uno dei temi che ho seguito più a fondo. Quando nel 1992 Kaplan propose la Balanced Scorecard sull’Harvard Business Review, io fui entusiasta dello strumento e iniziai ad approfondirlo con lui. Il lancio ufficiale della Balanced Scorecard in Italia avvenne poi negli anni 2000, quando proposi all’editore Isedi di pubblicare la traduzione del libro di Kaplan sull’argomento. Devo dire che fu subito un successo.
All’activity based costing, che è un modo per leggere i costi aziendali non più per compartimenti stagni ma per processi, dovranno arrivare prima o poi tutte le imprese.
Non è tanto il costo del prodotto, che varia nel tempo, quello che conta, ma il costo dell’attività: il costo di fare innovazione, per esempio.
Il problema, lo dico spesso, non è quanto si spende, ma se si spende bene. L’investimento in sostenibilità, per esempio, non è solo un costo, ma un investimento che porterà benefici.
Clayton M. Christensen, grande professore di Harvard recentemente scomparso, sosteneva che il problema non è mai valutare qual è il ritorno sull’investimento, ma cosa succede se io l’investimento non lo faccio. Quindi, se oggi noi non investiamo nelle persone e nell’ambiente, quanti danni rischiamo nel medio-lungo periodo? I veri imprenditori non si pongono il problema di quanto vale l’azienda, ma piuttosto di come far vivere l’azienda.
In questi anni lei è stato capace di “attualizzare”la Balanced Scorecard. Pensiamo al lavoro sulla Sustainable Balanced Scorecard per Yamamay, realizzata con Askesis.
Ho avuto il vantaggio di avere dei rapporti stretti con Kaplan, lavorando insieme a lui. E sono riuscito a diffondere la Balanced Scorecard in Italia, aggiornandola. Ne è un esempio il progetto con Yamamay, un’azienda che aveva già sviluppato un lavoro sulla parte sociale e sta approfondendo anche quella ambientale.
Penso anche al progetto con Etra, multiutility pubblica del Veneto, molto attenta ai temi ambientali, che ha voluto adottare una Sustainable Balanced Scorecard, perché ritiene importante investire nelle persone.
Il vantaggio di questo strumento straordinario è di essere selettiva: concentra l’attenzione su pochi fattori importanti. Inoltre, costringe alla condivisione. La condivisione significa: ti metto al corrente e ne discutiamo. Poi in alcuni casi la decisione non è partecipativa, ma intanto le informazioni sono state fatte circolare e hanno accresciuto la responsabilità dei soggetti coinvolti. In Etra abbiamo avviato un gruppo di lavoro con circa 40 persone.
Infine, un altro aspetto fondamentale della Balanced Scorecard è quello di fissare target e analizzare nel tempo i risultati raggiunti.
Un tema collegato a questi è quello relativo alla strategia sugli ESG, ovvero ai tre criteri (Environmental, Social e Governance) con cui verificare l’impegno in termini di sostenibilità.
Gli ESG sono un’espressione del grado di attenzione che c’è su questi temi. Sono stati proposti al mondo delle imprese da parte della finanza, che fino a qualche anno fa ne era lontana.
È importante notare che stiamo assistendo all’uso di molti strumenti che vanno in questa direzione. Penso al Bilancio di Sostenibilità, che è ancora una via di mezzo tra il bilancio ambientale, il bilancio sociale e l’integrated report: un unico report che racchiude le 3 P della Triple Bottom Line. Anche il tema ESG deve trovare un suo assestamento: oggi dice cose già dette, o propone attività che siano compatibili con quello che le aziende hanno già fatto.
Bisogna allora andare verso la Dichiarazione Non Finanziaria (DNF), che potrà includere tutti gli elementi oggi in ordine sparso.
In più c’è l’attenzione agli Stakeholder. Anche questo non è un tema nuovo: una volta si pensava ai Customer, oggi si sono aggiunti altri portatori d’interesse. Si pensi ancora all’esperienza di Etra, e alla sua attenzione verso il territorio.
A suo parere cosa manca al mondo imprenditoriale italiano per dare maggiore impulso all’area vasta del beneficio comune e della responsabilità d’impresa? Formazione? Preparazione culturale? Strumenti?
Sicuramente gli incentivi fiscali nel nostro Paese sono sempre stati apprezzati. Eppure, si potrebbe dire con una battuta, che le Società Benefit, che non sono sussidiate da benefici di questo genere, si sono sviluppate ugualmente. La nostra cultura cattolica aiuta molto.
E poi è compito di chi, come noi, scrive o insegna questi temi far capire che mentre in passato si riusciva a gestire un’impresa non avendo attenzione alle persone, oggi non è più possibile. Nessuno è insostituibile, ma forse per il bene dell’impresa alcune persone è meglio non perderle.
Il bene comune, di cui parla molto anche Folador, fa bene anche ai singoli. Oggi in molte aziende c’è il grosso problema della trasmissione delle competenze tra anziani e giovani: se non ci sono meccanismi organizzativi, non occasionali, a lavorare insieme, si rischia che queste competenze vadano perse. Il tema del passaggio generazionale è centrale in questo senso. Occorre però essere disponibili all’ascolto. E bisogna imparare a lavorare non più in modo individuale, ma in team. In Università come in azienda. La formazione per sviluppare questa capacità diventa fondamentale.