Notabene – Massimo Folador

Ma che cos’è questo bene comune?
In uno dei miei primi libri avevo citato il romanzo, forse più celebre, di Paulo Coelho, “L’alchimista”, rifacendomi alla storia simbolica di un giovane alla ricerca di un tesoro che, dopo un lungo peregrinare, ritrova nel luogo da cui era partito. L’obiettivo, molto personale, era quello di confermare quanto a volte, anche nella vita professionale, tornano esperienze, emozioni, che la vita stessa ricolloca nei tempi giusti, come tappe imprescindibili di un cammino.
Scrivo questo NotaBene qualche ora dopo la conclusione della convention con Serv.E.R. Cisl (di cui vi raccontiamo all’interno di questa newsletter) perché mi sembra sia accaduto proprio questo in questi giorni. Un incontro con circa 200 persone che metteva al centro “La sostenibilità in Serv.E.R., bene comune e partecipazione”.
Difatti sono le stesse parole da cui sono partito anni fa e che oggi tornano ad arricchirne un’altra – sostenibilità – che, usata e abusata, ha perso una parte della sua forza propulsiva, ma resta un pilastro imprescindibile della capacità di fare impresa di oggi e di domani.
Sempre a questo proposito ricordo quando, tanti anni fa ormai, ho iniziato a parlare in azienda di “etica” come “comportamento abituale teso al bene comune” e di quanto questa modalità di “agire il business” iniziò ad appassionare i tanti che negli anni (prima in maniera “carbonara” e poi sempre più manifesta) l’hanno praticata, comprendendo la valenza concreta del suo utilizzo in azienda.
Per me, che arrivavo da lunghi anni trascorsi nelle reti commerciali il tema era da tempo sul tavolo: che lo definissimo win-win o semplicemente vivendolo come un comportamento corretto, da tenere sempre davanti al cliente perché foriero di risultati nel tempo.
Qualche anno dopo, nel 2009, sulla scorta della stessa passione, nacque con l’Università LIUC l’“Unità di studi sull’Etica”: un cammino bello e affascinante, che ha segnato la mia vita sicuramente, ma credo anche quella di tante altre persone, anche se non certo in discesa, perché in quegli anni non era facile “maneggiare” il concetto di bene comune in azienda: da dove prendesse origine e dove portasse. E, soprattutto, cosa, noi e le aziende, potessimo fare concretamente per raggiungere quei risultati che il “bene comune” promette e, spesso, realizza…
D’altra parte eravamo e siamo in buona compagnia. Sul concetto di “bene” si sono misurati nei secoli pensatori e filosofi di ogni epoca, da Aristotele a Tommaso d’Aquino a Kant, senza mai riuscire chiaramente a fornire una chiave di lettura univoca ed esaustiva.
Ma anche in questo la vita, e le tantissime esperienze e relazioni che la vita propone ogni giorno, mi è venuta in aiuto, portando in dono e in gioco la parola partecipazione. In quel momento ho iniziato a comprendere qualcosa di più della delicatezza ma anche della fondatezza del bene comune e di quanto possa essere realmente un obiettivo centrale nel lavoro quando si sposta l’attenzione dal termine “bene” al termine “comune”. Il secondo difatti suggerisce qualcosa che va ben oltre un concetto e introduce una modalità, un’azione al cui centro c’è la partecipazione.
Un modo di vivere e di lavorare assieme che non punta su concetti astratti, finalità precostituite, strategie fintamente condivise (un bene, per l’appunto, poco comune), ma su un processo continuo di ascolto e ricerca dello stesso.
Un percorso mai lineare, perché noi umani non siamo mai lineari, ma che va costruito con pazienza e lungimiranza e che un’abilità importante di sintesi porta a dei risultai pratici impensabili. La partecipazione regge ciò che siamo in grado di rendere comune e comunità. Sarebbe impensabile e antitetico pensare che in un’azienda o in una società il bene collettivo possa essere disegnato a tavolino o deciso e vagliato per tutti dal leader di turno, foss’anche quello più lungimirante.
L’attuale momento storico ci richiama alla necessità di creare un sistema al cui centro ci siano coinvolgimento e collaborazioni reali e costruttive. Quella che per l’appunto possiamo chiamare partecipazione, che cessa di essere un atto solo benevolo e diventa un atto strategico. Il vero valore della sostenibilità.